Finti stupri: la Rai ha un problema con le donne

Cara Mamma RAI, le storie sono importanti. La narrazione, per ben tre volte, di una storia che alimenta stereotipi e pregiudizi alla base di una piaga sociale non è accettabile. Non affrontata così, con il buonismo, condito di pruderie e di giudizi morali sulle donne che "non restano accanto al caminetto".  Cara Mamma RAI, sono il linguaggio, la cultura e le storie a cambiare il mondo.  Viene il dubbio che tu questo mondo non lo voglia cambiare.

In meno di un mese, la RAI ha proposto tre racconti di finti stupri (l’ultimo ieri sera) in altrettante serie tv targate RAI e mandate in onda, in prima serata, sulla rete ammiraglia del servizio pubblico nazionale.
Le storie, gira e rigira, sono le stesse, con vittime che in realtà non lo sono e, semmai, sono donne bugiarde, arriviste, fedifraghe in cerca di vendetta:

  1. In Mina Settembre, una donna accusa ingiustamente il suo ginecologo di stupro
  2. Ne Le indagini di Lolita Lobosco, prima puntata!, una donna simula uno stupro, sporcandosi gli abiti di sperma, al fine di incastrare un uomo ricco.
    Tra parentesi: prima di essere certa della sua innocenza, la detective protagonista delle indagini finisce a letto con l’abuser.
    Ma in quanto a stereotipi, non solo sessisti, e narrazione tossica da cultura dello stupro gli elementi sono diversi, sintetizzati in questo articolo di Aestetica Sovietica, che tra i primi ha denunciato il tutto.
  3. In Che Dio ci aiuti 6, la tripletta si compie con un’altra storia in cui la vittima di abusi si rivela essere solo una bugiarda.

In uno scenario di violenza di genere inaudita, aggravata dalla pandemia, i dati del rapporto Istat (agosto 2020) sul numero di pubblica utilità 1522 parlano chiaro: solo una telefonata verificata su 10 è diventata denuncia. Parte di quelle fatte, sono state poi ritirate.

Secondo il rapporto Istat 2014, le denunce riguardano solo l’11,4% delle donne italiane e il 17% delle straniere dichiaratamente vittime di abusi (c’è poi tutto il sommerso, si stima elevatissimo, di donne che riunciano a monte e non chiedono aiuto).

Le false denunce esistono, ma si parla di una percentuale che va dal 2 al 10% e rarissimamente hanno reali ripercussioni sugli accusati.
Ne scrive con cognizione di numeri Sandra Newman su Quartz.
Si tratta di fatti gravi, che spesso hanno origine da patologie psichiatrie, ma che costituiscono un’eccezione.

La violenza di genere, invece, è sistemica: sia in termini di femminicidio (il 2021 non sta facendo eccezione), sia in termini di violenze e abusi a vari livelli (una donna su tre subisce abusi e una donna su dieci è vittima di molestie sessuali sul lavoro nel corso della vita, dati Organizzazione Mondiale della Sanità).

In questo quadro sociale, la prima rete del servizio pubblico italiano cosa fa? Mostra non ciò che ammazza, zittisce, sottomette e annienta le donne ogni giorno, in continuazione, ma alimenta lo stigma, la vergogna e il timore (a ragion veduta!) di non essere credute delle vittime di abusi sessuali che, soprattutto per questo, spesso non denunciano.

Ma non andiamo a sentimento e lasciamo, ancora una volta, parlare i dati, visualizzati in questa infografica Istat del 25 novembre 2019:

Sulla colonna di destra, ecco i numeri del pregiudizio, un’altra forma di violenza che umilia, sminuisce e colpevolizza le vittime;

  • il 39,3% pensa che le donne che non vogliono un rapporto sessuale possono evitarlo
  • il 23,9% che le donne possono provocare la violenza con il loro modo di vestire
  • il 15,1% che la vittima è in parte responsabile se, al momento della violenza, è ubriaca o sotto l’effetto di droga
  • il 10,3% che SPESSO le accuse di violenza sono false

Esiste una responsabilità di chi fa informazione, cultura, intrattenimento?
Sì, esiste! Soprattutto se sei il primo canale di un servizio PUBBLICO nazionale.
La televisione è il medium che, fino all’avvento di internet, blog e social, ha fatto la rivoluzione culturale e dato a un popolo che, da Nord a Sud, non sapeva neppure parlare la stessa lingua, punti di riferimenti comuni, modelli, una storia condivisa. Un simile potere implica responsabilità.

Erano le 22 del 26 aprile 1979 quando la RAI mandò in onda il primo documentario su un processo per stupro: tre milioni di telespettatori.
Processo per stupro (A Trial for Rape), questo il nome del documentario diretto da Loredana Dordi, fu replicato in prima serata a ottobre dello stesso anno: nove milioni di spettatori.
Fu un evento storico, ne abbiamo scritto qui, e ancora sono disponibili i video che mostrarono a tutta Italia – parafrasando l’avvocata Tina Lagostena Bassi, che nel processo era difenditrice della parte civile – di come gli avvocati degli uomini accusati di violenza potessero essere a loro volta altrettanto brutali con la vittima.

In quell’occasione, l’avvocato Giorgio Zeppieri disse, tra le altre cose:

Signori miei, una violenza carnale con fellatio può essere interrotta con un morsetto. L’atto è incompatibile con l’ipotesi di una violenza. Tutti e quattro avrebbero incautamente abbandonato nella bocca della loro vittima il membro, parte che per antonomasia viene definita delicata dell’uomo. […] Lì il possesso è stato esercitato dalla ragazza sui maschi, dalla femmina sui maschi. È lei che prende, è lei che è parte attiva, sono loro passivi, inermi, abbandonati, nelle fauci avide di costei!

L’avvocato Angelo Palmieri, tra molte altre simili, pronunciò queste parole:

Che cosa avete voluto? La parità dei diritti. Avete cominciato a scimmiottare l’uomo. Voi portavate la veste, perché avete voluto mettere i pantaloni? Avete cominciato con il dire «Abbiamo parità di diritto, perché io alle 9 di sera debbo stare a casa, mentre mio marito il mio fidanzato mio cugino mio fratello mio nonno mio bisnonno vanno in giro?» Vi siete messe voi in questa situazione. E allora ognuno purtroppo raccoglie i frutti che ha seminato. Se questa ragazza si fosse stata a casa, se l’avessero tenuta presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente.

Il victim blaming in quel caso raggiunse picchi inauditi, verrebbe da dire, se non fosse che nel 2021 poco è cambiato. Il caso Genovese docet, per citare uno dei più abietti e recenti. Ma vogliamo parlare della violenza dell’opinione pubblica e mediatica che si è abbattuta su due VITTIME come Desirée Mariottini, Pamela Mastropietro e molte altre?

Lo diceva al tempo di Processo per stupro Loredana Rotondo,

ovunque nel mondo, quando aveva luogo un processo per stupro, la vittima si trasformava in imputata.

Va riscritto al presente.

Cara Mamma RAI, le storie sono importanti.
La narrazione, per ben tre volte, di una storia che alimenta stereotipi di genere e pregiudizi alla base di una piaga sociale non è accettabile. Non affrontata così, con il buonismo, condito di pruderie e di giudizi morali sulle donne che non restano accanto al caminetto. 
Cara Mamma RAI, sono il linguaggio, la cultura e le storie a cambiare il mondo.
Viene il dubbio che tu questo mondo non lo voglia cambiare, che lo voglia esattamente così com’è: misogino, ostile alla diversità e alle minoranze (se non quando buone per la commozione e il pietismo). Un mondo raccontato da pochi parrucconi che, per difendere il loro privilegio, accusano chi sta facendo la rivoluzione di politically correct: politically correct e perbenismo tutti loro!
Le rivoluzioni non sono politically correct e il linguaggio e le narrazioni inclusive e non stereotipate sono una rivoluzione. 
Cara Mamma RAI, hai fatto la Storia, spesso dalla parte sbagliata, ma come tutt∂ noi.
Però si può cambiare e scrivere una nuova Storia.

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