Dopo il raptus, arriva il gene guerriero: a uccidere noi donne non è mai l'uomo

Potrebbe diventare l'elemento chiave per deresponsabilizzare il femminicida di Viktoriia Vovkotrub, uccisa nel novembre scorso a Brescia dall'ex compagno. È già stato protagonista in tribunali, ma anche in talk show di dubbio gusto. Sul gene guerriero si è costruita un'epica machista aspirazionale (se ce l'hai avrai talento negli affari!) e una narrativa dell'alibi (sei violento? non è colpa tua!), con tanto di fioritura di un'industria redditizia. Poi c'è la parte seria, quella delle neuroscienze, in cui il gene si chiama MAOA, ma anche qui c'è tanta confusione. Abbiamo provato a fare un po' di chiarezza.

La scorsa settimana la giornalista e scrittrice Nadia Busato ha segnalato sui suoi canali social il ritorno in auge della tesi del “gene guerriero”, stavolta per la costruzione della difesa di un femminicidio.

Nella fattispecie, quello di Viktoriia Vovkotrub, avvenuto nel novembre scorso a Brescia per mano di Kadrus Berisa, reo confesso solo nei giorni scorsi.

Gli avvocati Alessandro Bertoli e Mauro Bresciani, legali dell’uomo, hanno infatti chiesto e ottenuto una perizia psichiatrica per valutare la capacità di intendere e volere al momento del femminicidio di Berisa. La richiesta, in particolare, è quella di avvalersi delle neuroscienze per indagare “attraverso tac o risonanza – come riporta il Giornale di Brescia –, l’eventuale presenza di compressioni alle aree del cervello che sovrintendono alla gestione degli impulsi”, e rilevare tramite prelievo del sangue e analisi del DNA la presenza del cosiddetto ‘gene guerriero’.

Sempre nel suddetto articolo:

“A spiegare (e giustificare, almeno in parte) tutta la violenza di Berisa potrebbe essere la scienza. Per capire che qualcosa nella psiche del 61enne muratore kosovaro fosse andato in tilt all’epoca dell’omicidio per i suoi difensori basta”.

Varrebbe la pena entrare nel merito, di nuovo!, del problema evidente, che il giornalismo e la giustizia italiani (e non solo) hanno con la narrazione del femminicidio e con il linguaggio a esso correlato: non sono questioni di contorno, bensì la diretta emanazione di una mancata comprensione di un fenomeno sistemico, socio-economico e culturale, che non può essere trattato ogni volta come singolo caso di cronaca.

Ma concentriamoci sul gene guerriero!

Il nome meno scenografico è MAOA e sta per monoammino-ossidasi A, dall’enzima omonimo che regola e presiede al catabolismo dei neurotrasmettitori, tra cui dopamina, serotonina, noradrenalina. Nel tentativo di indagare su questo famigerato gene, vengo più volte rimandata da varie fonti all’articolo Monoamine oxidase A gene (MAOA) predicts behavioral aggression following provocation, in cui si dà conto di una ricerca internazionale che ha visto la partecipazione di cinque ricercatori di altrettante università, tra cui il biologo molecolare italiano Giovanni Frazzetto. Leggo:

Il gene della monoammino-ossidasi A (MAOA) si è guadagnato il soprannome di “gene guerriero” perché è stato collegato all’aggressività in studi osservazionali e basati su test. Tuttavia, nessuno studio sperimentale ha verificato se il gene guerriero guidi effettivamente le manifestazioni comportamentali di queste tendenze.

Già, perché lo studio in questione – questo in molti lo omettono – è stato svolto su un gruppo di 78 volontari cui è stato chiesto di giocare con un video gioco che permetteva loro di guadagnare soldi, ‘sottratti’ poi a loro insaputa da un ‘ladro’. Il test ha di fatto valutato la disponibilità di questi giocatori a pagare per punire, sempre virtualmente, il colpevole del misfatto. Conclusione? I portatori MAOA-L (cioè con una bassa attività enzimatica MAOA) sono più propensi dei non portatori a rispondere con “aggressioni comportamentali” dove per “aggressività comportamentale” s’intende, relativamente alla ricerca in questione, la scelta di far consumare una salsa molto piccante al presunto imbroglione.

Ok! Non può essere che stiamo parlando di deresponsabilizzare un assassino in nome di un videogioco e di una salsa molto piccante. Continuo la ricerca.

Mi viene in soccorso John Horgan, giornalista scientifico che, in un articolo del 2011 pubblicato su Scientific American, approfondisce il presunto scoop dello psicologo Phil McGraw, autore di vari testi motivazionali e conosciuto in qualità di conduttore televisivo come Dr. Phil, nonché grande sostenitore del gene guerriero.

McGraw, correva sempre l’anno 2011, ospita nel suo show anche Rose McDermott, professore alla Brown University e tra i co-autori dello studio di cui sopra – quello della salsa! -, super presente in interviste sul tema dal tono sensazionalistico, che non esita a dire che “il gene del guerriero, presente in circa il 30 percento della popolazione, aumenta la probabilità di intraprendere ‘aggressioni fisiche'”.
Vero è che ci sono dei precedenti, riportati nella ricerca stessa, tra cui uno studio degli anni ’90, così citato nell’articolo Monoamine oxidase A gene (MAOA) predicts behavioral aggression following provocation che, per completezza di informazione, è pubblicato su PNAS – Proceedings of the National Academy of Sciences, rivista accademica degna di nota.

Una famiglia olandese con un’incidenza ripetuta di comportamenti criminali violenti tra i maschi di diverse generazioni ha riscontrato un’anomalia nell’MAOA (una mutazione missense di un singolo nucleotide del gene) (18). Un recente lavoro di diagnostica per immagini (imaging) in un ampio campione dimostra che durante l’eccitazione emotiva, gli uomini MAOA-L mostrano una maggiore reattività nell’amigdala e una minore attività nelle aree prefrontali regolatorie. Tale lavoro suggerisce un collegamento tra i canali emotivi e cognitivi legati al MAOA-L e forme impulsive di aggressione (12, 19).

Ma attenzione, poco più avanti si legge:

Tuttavia, rimane una grande lacuna nella letteratura, in quanto non è chiaro se le misure di aggressione auto-segnalate riflettano effettivamente l’aggressività comportamentale (cioè azioni piuttosto che parole).

Pare di tornare alla teoria del delinquente di Cesare Lombroso, secondo la quale il comportamento criminale era presumibile dalle caratteristiche anatomiche del criminale; e alla frenologia. È in nome di teorie come queste che, in passato, si sono giustificati i più grandi orrori, la pulizia etnica, il razzismo – accogliendo la tesi della superiorità dell’uomo bianco, deducibile dalla conformazione del cervello, e dell’inferiorità della donna.

Volendo attenerci a un’altra ricerca sul gene guerriero, di due anni precedente a quella della salsa e condotta da Geoffrey Chambers e Rod Lea, ricercatori della Victoria University of Wellington in Nuova Zelanda, la Cina più che sovrappopolata avrebbe a quest’ora una popolazione decimata. In Monoamine Oxidase, Addiction, and the “Warrior” Gene Hypothesis, Chambers e Lea tentano una profilazione su base etnica del gene guerriero e riferiscono che il 56% degli uomini Maori sono portatori MAOA-L. “È risaputo – commentano – che storicamente i Maori sono stati guerrieri senza paura”. Peccato che, approfondendo, si scopre che la profilazione sia basata su 46 uomini che dovevano avere un solo genitore maori per essere definiti tali e che, secondo questo studio sui maori non proprio maori, sono portatori di allele a bassa attività per il gene MAOA (MAOA-L), in ordine crescente: ispanici (29%), caucasici (34 %), africani (59 %) e cinesi (77 %).

Anche in questo caso, a indirizzarmi alla ricerca è stato il giornalista John Horgan, con cui condivido uguale scetticismo e preoccupazione per le conseguenze di queste comunicazioni – sapientemente o irresponsabilmente? – condivise dalla stampa in modo sensazionalistico: “Il gene del guerriero assomiglia ad altre pseudo-scoperte che emergono dalla genetica comportamentale, come il gene gay, il gene di Dio, il gene dell’alto QI, il gene dell’alcolismo, il gene del gioco d’azzardo e il gene liberale“.

Nonché, aggiungo, sembrano non tenere conto dell’interazione gene-ambiente, almeno non quando vengono riferite in chiave divulgativa, e del principio stesso della responsabilità individuale su cui si basa la convivenza sociale.

Ora, tornando alla morte di Viktoriia Vovkotrub, a esaminare il femminicida Berisa sarà Giuseppe Sartori, Professore ordinario di Neuropsicologia Forense presso l’Università di Padova già protagonista, tra le altre cose, di quello che a una prima analisi risulta essere il primo processo italiano in cui entrarono in gioco le neuroscienze e, a livello europeo, la prima volta in cui la genetica comportamentale influenzò una sentenza.
È lui lo studioso, con un approccio davvero scientifico in questo caso, su cui a questo punto concentro le mie ricerche.
I fatti risalgono al 2009, quando la Corte d’Assise d’Appello di Trieste, fece sua la lettura neurobiologica per cui

“[…]l’essere portatore dell’allele a bassa attività per il gene MAOA (MAOA-L) potrebbe rendere il soggetto maggiormente incline a manifestare aggressività se provocato o escluso socialmente”. Sulla scorta di tali risultanze peritali, il giudice d’appello conferma la valutazione di parziale incapacità di intendere e di volere, applicando, però, nella misura massima la diminuzione di pena consentita dall’art. 89 cod. pen. A tal proposito nella motivazione della sentenza si legge che “proprio la circostanza emersa nel corso dell’ultima perizia psichiatrica – vale a dire, che determinati geni presenti nel patrimonio cromosomico dell’imputato lo renderebbero particolarmente reattivo in termini di aggressività, e conseguentemente,
vulnerabile in presenza di situazioni di stress – induce la corte a rivalutare la decisione di non applicare
nel massimo la riduzione di pena possibile per il difetto parziale di imputabilità”»
da archiviopenale.it, Le “prove di verità” e la libertà morale del dichiarante di Antonio Ugo Palma.

“Non sono stato io, ma il mio cervello” è invece il paradosso – nonché il rischio concreto di deresponsabilizzazione – analizzato nel saggio Il delitto del cervello da cui parte Pierangelo Garzia, science writer esperto in neuroscienze, per chiedere allo stesso Sartori:

È probabile che qualcuno prima o poi tenti di scagionarsi da un delitto in questo modo?

Risposta (siamo nel 2012, una vita fa considerato il tema, ma vale la pena riflettere):

Quel libro è il migliore che c’è in circolazione su questi temi, ma un concetto del genere non è assolutamente sostenibile. La posizione che sta portando avanti il gruppo di cui faccio parte è che le questioni di responsabilità sono svincolate da quelle relative al cervello. Dal punto di vista scientifico esiste la possibilità teorica di ricostruire il nesso di causa che determina ogni nostra azione. Ci avviciniamo sempre di più al lavoro di Dylan Jones, però dal punto di vista della responsabilità è una questione che ha a che fare con l’aspetto cognitivo e non col cervello. Le faccio un esempio. Se un soggetto è pedofilo, cioè agisce con azioni di natura sessuale nei confronti di un minore, può essere o non essere responsabile indipendentemente dal suo cervello. Ad esempio, vi sono delle pedofilie acquisite a causa di lesioni nella regione dell’ipotalamo, per tumori nella zona ipotalamica, che possono interferire con i nuclei dell’ipotalamo coinvolti nell’orientamento sessuale, dando origine a questo comportamento. Però dal punto di vista della questione se la pedofilia sia acquisita o congenita, è piuttosto irrilevante. Ciò che conta è la capacità di fare diversamente. I test sulla responsabilità sono di tipo psicolegale, non di tipo neurologico. Test di tipo psicolegale significa che si vada ad accertare la seguente questione: il soggetto è in grado di fare diversamente, se solo avesse voluto? Questo è il discrimine.

Ora, il tema è chiaro che sia destinato a suscitare dibattito nella società scientifica. Di fatto nel frattempo, a una ricerca superficiale emerge la fioritura di un’industria dell’alibi che mostra, ancora una volta, come il modello machista più che fare paura, giochi un’attrattiva molto forte e, ovvio, monetizzabile.

Scelgo giusto due casi, esemplificativi:

Trattasi di immagine Facebook di azienda che fa test genetici destinati al consumatore finale.

Non serve un’esegesi particolarmente arguta per comprendere che sul ‘gene guerriero’ è stato costruita un’epica iconografica (Hulk, lo sappiamo, non riesce a controllare la sua rabbia, ma in realtà fa parte dei buoni ed è proprio la sua maledizione a renderlo un eroe); e non solo. MAOA non sembra così terribile da questo punto di vista. Sembra più l’alibi perfetto per auto assolversi e ripetersi all’infinito, come fa lo psichiatra interpretato da Robin Williams in Will Hunting nei confronti dell’autodistruttivo ‘genio ribelle’ Matt Damon: “Non è colpa tua, non è colpa tua!”. Si potrebbe aggiungere, di fronte a un caso di femminicidio: “Hai il gene guerriero! Non è colpa tua”.

Notare, en passant, come “Il gene del guerriero si trova nel cromosoma X: è ereditato dalla madre ma è più efficace negli individui di sesso maschile”.
Da Eva ai femminicidi: la colpa, donne, è sempre nostra!

Altro test a domicilio, altra narrativa, altro doppio standard alibi e/o valore.

Hai il “gene del guerriero”?
Scopri se sei portatore dalla variante genetica che ti rende più aggressivo (alibi! deresponsabilizzazione!) e più audace negli affari (aspirazionale!).

Perché sì, il gene guerriero è figo, maschio: ti rende uomo ricco e di successo, con più fiuto negli affari; se poi ammazzi la moglie o la fidanzata che ti molla… “Non è colpa tua, non è colpa tua!”.

Sul retro della confezione, alibi e meriti sono approfonditi; mentre l’iconografia del giovane barbuto piacente che urla fa il resto. Sullo stesso sito del test genetico, del resto, scopri che se sei fortunato (alias, se sei tra quel 30% di maschi volitivi secondo lo studio della salsa piccante), puoi ricevere a casa la certificazione da vero guerriero.
Per inciso: agli aspiranti Massimo Decimo Meridio si precisa che il test è indolore (coerenza!).

Tornando all’ottimo Horgan, condivido alcune riflessioni, che mi auguro di poter prossimamente approfondire:

Il record abissale della genetica comportamentale deriva da due fattori. In primo luogo, la ricerca di correlazioni tra migliaia di geni e migliaia di tratti e disturbi è soggetta a falsi positivi, specialmente quando i tratti sono soffici come “aggressività” e “traumi infantili” (la variabile che aiuta alcuni ricercatori a collegare MAOA-L alla violenza comportamento). In secondo luogo, i media, comprese le riviste scientifiche rispettate come Science e PNAS , nonché spettacoli come il Dr. Phil, sono inclini a promuovere “scoperte” che attireranno l’attenzione.

Il fascino dei media per il gene guerriero, sottolinea poi il giornalista, ricorda le orribili affermazioni fatte decenni fa riguardo alla “sindrome XYY”: alcuni ricercatori affermarono di aver trovato prove che gli uomini XYY erano “supermaschi”, iperaggressivi a rischio di diventare criminali violenti. La notizia ebbe risonanza mediatica autorevole, entrò nei consessi scientifici e nelle aule di tribunale, finché in un rapporto del 1993 ” Capire e prevenire la violenza ” l’Accademia Nazionale delle Scienze ha concluso che non esiste alcuna correlazione tra la sindrome XYY e il comportamento violento.

Ora, chiaro che questa deriva ha poco a che fare con l’attività, seria, delle neuroscienze.
Mi ripropongo di continuare la ricerca e verticalizzare un prossimo articolo sull’aspetto, davvero scientifico delle stesse, con l’auspicio che il dottor Giuseppe Sartori accetti il mio invito a rispondere ad alcune domande.

Nel frattempo, però, in assenza di risposte:

Quanto le neuroscienze possono oggi essere davvero dirimenti?
In materia di criminalità in generale, è tema su cui neppure la comunità scientifica si è espressa in modo unanime.

Quanto la società in cui viviamo tenda a deresponsabilizzare l’aggressività maschile, in nome di fattori biologici o culturali, e a esaltare una mascolinità tossica?
Sarebbe evidente a tutti, se questa stessa mascolinità guerriera non fosse la narrazione aspirazionale su cui si è basata, nei millenni, la formazione sociale e l’educazione emotiva dei maschi.

Il gene guerriero, in questo senso, ne è una dimostrazione eloquente: sfonda persino la soglia del pudore del raptus – che almeno deresponsabilizza il fenomeno pandemico del femminicidio a momentanea follia (a questo punto di portata collettiva!) – e fa leva su caratteristiche innate del maschio, atavicamente cacciatore e guerriero, più che mai auspicabili nella cultura machista.

Ci sono poi due interrogativi, io credo, doverosi:

Le neuroscienze possono essere d’aiuto nel dare supporto in ambito di prevenzione?

Marianna Manduca aveva denunciato 12 volte, dodici!, prima di essere uccisa: il suo assassino è stato lasciato libero di portare a termine il suo piano criminale.
Vanessa Zappalà, è stata uccisa a fine agosto 2021 (quindi già in piena attività del Codice Rosso). Non sono bastate le denunce per stalking, le minacce di morte, il gps installato dall’uomo sull’auto di padre e figlia; non è bastato neppure il fatto che si fosse introdotto di nascosto nel soffitto della casa della donna: l’assassino al momento del femminicidio era, semplicemente, sottoposto al divieto di avvicinamento.

Casi come questi sono all’ordine del giorno. Non piò trovarsi nella prevenzione il valore aggiunto della lettura neurobiologica del cervello e del DNA di uomini che hanno già commesso reati e dichiarato i loro intenti omicidi? Attenzione: in questo senso, prima che qualcuno storca il naso, saremmo di fronte a uomini che hanno già commesso i cosiddetti reati spia che spesso preludono al femminicidio, quindi ben lontani dalla prevenzione liberticida della squadra omicidi immaginata nel film con Tom Cruise Minority Report.

Anche qui, ovvio, il discorso apre ai temi dell’etica, della democrazia e della morale. Ma l’interrogativo cui non possiamo sottrarci, io credo sia:

Quanto può essere valida una lettura neurobiologica del femminicidio, trattato come se fosse un generico omicidio, cioè deprivato delle sue caratteristiche endemiche e pandemiche che ne fanno un’emergenza sociale su scala mondiale?

È un tema su cui non ho trovato, almeno non nelle ricerche svolte finora, alcun tipo di volontà di approfondimento.

Semmai ci si imbatte nella diffusa tendenza a livellare il discorso del femminicidio a omicidio, secondo un’ignoranza che diventa colpevole quando agisce negli ambienti che dovrebbero essere competenti: se la classe politica e intellettuale, se il giornalismo e gli organi che attengono alla giustizia non si interrogano, per primi, sulle differenze sostanziali (sociali, culturali, legislative ed economiche) tra i due atti criminali che, in comune, hanno solo l’epilogo mortale per la vittima, è difficile pensare a un futuro in cui le donne non continuino a morire ai ritmi serrati cui siamo assuefatti.

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