In Italia un adolescente su due ha pensieri suicidi, e parliamo di una tendenza in aumento. È quanto emerge da uno studio multidisciplinare realizzato dal gruppo di ricerca MUSA del Cnr-Irpps, che, basandosi sulle interviste a circa 4000 studenti, ha preso in esame gli aspetti sociologici, psicologici e demografici per analizzare l’influenza sul problema.

Poche relazioni con i coetanei e di scarsa qualità, da cui deriva un’insoddisfazione crescente, al netto di crescenti contatti virtuali, questi sono i principali fattori di rischio che portano i ragazzi a sviluppare i pensieri suicidi.

Come ha spiegato a Repubblica Antonio Tintori del Cnr-Irpps, responsabile dell’indagine pubblicata sulla rivista Scientific Reports di Nature, “La maggioranza degli studi si focalizza solo sugli aspetti psicologici, che sono i più evidenti ma sono un sintomo, mentre il nostro obiettivo era risalire alle cause. Gli studi sul suicidio sono per loro natura difficili: in alcuni casi si ricorre alla cosiddetta autopsia psicologica retrospettiva, intervistando amici e familiari, ma a volte non ci sono segnali di allarme, mentre in altri casi atti volontari sono catalogati come incidenti.”

Tra i giovani sono diffuse quelle che vengono definite “condotte parasuicidarie”, che vanno dal consumo di alcol all’uso di farmaci in maniera sconsiderata ma, come sottolinea la dirigente medica del reparto emergenze psichiatriche adolescenti della Neuropsichiatria Infantile del Policlinico Umberto I di via dei Sabelli, Arianna Terrinoni, “Quello che varia è l’intenzionalità. Il dato centrale, che emerge chiaramente dallo studio, è proprio l’aumento dei comportamenti anticonservativi e di accessi al pronto soccorso: nei nostri PS il 40% degli accessi psichiatrici riguarda lo spettro suicidario“.

“La criticità più seria – prosegue la psichiatra – emerge quando i pensieri di morte, comuni tra gli adolescenti, sono visti come l’unica soluzione di un problema. Oggi sempre più spesso vediamo una ridotta attrazione nei confronti del futuro, una riduzione dell’orizzonte, e in ragazzi sempre più giovani”.

Non va dimenticato che il clamore sul fenomeno può inoltre agevolarne in qualche modo lo sviluppo; per questo, spiega Terrinoni, “stiamo cercando di adottare una comunicazione protettiva che eviti riferimenti troppo diretti che possono fungere da stimolo, e invece analizzi il fenomeno in positivo parlando di come migliorare la qualità della vita”.

Rispetto alla distribuzione dei pensieri suicidi, dallo studio emerge che sono più diffusi tra i giovani che vivono nelle regioni del Nord, tra gli stranieri, tra gli studenti degli istituti tecnici, tra i non credenti e tra chi ha una famiglia con minori disponibilità economiche.

Tra i motivi principali, come abbiamo accennato, la sempre maggiore riduzione della socialità: il fatto che le relazioni spesso non riescano ad andare oltre il lato virtuale acuisce il senso di solitudine dei giovani, per quanto apparentemente il loro interesse sembri proprio quello di essere “celebri” sui social. Inutile sottolineare, poi, che la pandemia abbia peggiorato la situazione inevitabilmente.

“Lo studio evidenzia i problemi legati al deterioramento dell’interazione sociale, all’impossibilità di far parte di un gruppo”, ha sottolineato Tintori, parlando di un elemento emerso durante il lockdown, e che ha rappresentato un punto fondamentale soprattutto per chi aveva già precedenti difficoltà di interazione sociale; a questo dobbiamo poi aggiungere altri fattori di esclusione sociale, come la difficoltà di accedere alle connessioni in rete – “tutti fenomeni che possono incrementare sentimenti di tristezza, anedonia, demotivazione già presenti prima della pandemia” – ma anche il dover frequentare la scuola in una modalità diversa, il dover cambiare i propri ritmi di sonno-veglia, l’auto organizzazione obbligata.

Un aspetto fondamentale del ruolo dei social nella crescita della “solitudine sociale” è poi quello che riguarda il cyber bullismo, motivo per cui, afferma Tintori, sarebbe importante che l’attività dei figli fosse regolata dagli adulti.

Infine, proprio la già menzionata ricerca di notorietà sui social causa un profondo senso di insoddisfazione e inadeguatezza nei giovani: “Oggi l’autostima si costruisce a colpi di like, questo spiega anche la maggior fragilità delle ragazze, che emerge dallo studio. È diffusa l’insoddisfazione per il proprio corpo, legata anche a modelli estetici di riferimento sempre più rigidi”.

Bodyshaming e paragoni con i corpi femminili sono tra gli aspetti più problematici legati all’utilizzo dei social da parte soprattutto delle adolescenti.

Come possono intervenire gli adulti per arginare il problema? “Intanto superando il tabù che oggi spesso induce a non affrontare questi problemi – suggerisce Tintori – Poi bisogna ripensare l’assetto scolastico, formare i docenti e coinvolgere le famiglie per garantire ai ragazzi un’educazione emozionale”.

E ancora, evitare l’iperconnessione, combattere l’analfabetismo funzionale, aiutare i ragazzi a sviluppare uno spirito critico. “Bisognerebbe che i genitori passassero più tempo con i figli, che la scuola non fosse finalizzata solo all’idea di una carriera lavorativa, ma anche a una preparazione culturale, a favorire socialità, divertimento, comunicazione – afferma Terrinoni – Penso a un’istruzione che permetta ai ragazzi di scegliere tra diverse strade senza essere vincolati a un modello in cui solo i vincenti possono trovare un loro ruolo”.

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