#Rompiamoilsilenzio: questo articolo  fa parte della campagna di scrittura #Unite, cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla

Mentre ero immersa nelle ricerche del mio ultimo romanzo, scavando nelle biografie delle protagoniste, non ero preparata a quello che ho trovato. Volevo raccontare le muse di una rivoluzione artistica e culturale leggendaria. Ho conosciuto invece da vicino lo smarrimento, la sofferenza e la follia scatenata da famiglie in cui i corpi delle figlie erano proprietà assoluta dei padri. Usate fino a romperle: come degli attrezzi, come degli animali, come degli oggetti e, spesso, come le mogli. Dalla più benestante alla più sbandata, da quella più timida alla più esibizionista, dalla ricca ereditiera alla homeless ridotta a fare marchette per un panino: tutte le donne di cui ho ricostruito la biografia hanno subito, tra le mura domestiche, da parte dei padri e talvolta anche dei fratelli, una quantità di violenze tale da segnarmi profondamente.

Il termine tecnico per chiamare la violenza sulle figlie e sui figli è “abuso intrafamiliare”. È un tema spinoso e traumatico, che fatica a trovare lo spazio necessario nei sistemi di monitoraggio del fenomeno e negli strumenti di intervento. Le ragioni sono molteplici e vanno dall’indicibile all’inaffrontabile. Tabù e orrore, segreti e mostri, colpa e vergogna: sono questi i marchi della violenza confinata all’interno della famiglia e nella cerchia dei conoscenti più stretti.

Quando prendiamo in mano i numeri della violenza sui minori, infatti, il dato che ci colpisce immediatamente è uno solo: oltre il 60% delle violenze su minori avviene in famiglia (abuso intrafamiliare) o da persone a cui sono affidati per ragioni di cura ed educazione (abuso parafamiliare). Una vittima su tre è abusata da un genitore; una su cinque in modo continuativo. I dati sono inattuali, disgregati, raccolti per lo più grazie all’impegno di operatori sul campo: associazioni, terapeuti, medici, in pochi casi forze
dell’ordine.

I numeri ci dimostrano quindi che, come per le donne, anche per i minori la famiglia rimane il luogo più pericoloso. Ma se la pressione dell’opinione pubblica e la mobilitazione di tanti settori coinvolti è riuscita ad attivare strumenti collettivi per nominare la violenza contro le donne, lo stesso non possiamo dire di quella a danno dei minori, che come società non riusciamo nemmeno a nominare. Prima che Parco Verde e Caivano balzassero alle cronache, il Garante per i diritti dell’infanzia della Campania aveva reso pubblica una ricerca shock che fotografava zone in cui “l’abuso sessuale, l’incesto, è elevato a normalità”. Questo dato si somma all’aumento esponenziale di casi di autolesionismo e suicidio tra minori e adolescenti (70% dei ricoveri).

Stiamo cercando le parole per raccontare la violenza sul nostro corpo di donne adulte. Ma come possiamo dire la violenza sul corpo delle figlie e dei figli? Questa domanda se la pongono sempre più spesso autrici e autori, artiste e artisti, impegnati a trovare le parole per restituire in modo autentico la narrazione di un fenomeno esteso, interculturale, che ci riporta sempre a un’origine comune: il diritto del maschio più potente di disporre a sua discrezione dei corpi di chi gli è sottoposto.

Nei teatri italiani è in tournée il pluripremiato Dentro, spettacolo scritto e interpretato da Giuliana Musso. In scena ci sono l’autrice e regista (Giuliana Musso, appunto) e un’attrice (Maria Ariis) che interpreta Roberta, nome fittizio di una donna divorziata che, solo dopo la
separazione, ha compreso che nella sua bella casa il marito ha abusato per anni della figlia. Una scoperta faticosa, in un clima di perenne conflitto con la figlia. Roberta fa quello che chiunque di noi è invitato a fare: non appena il sospetto si fa certezza, denuncia. Ma la giustizia probaotoria non considera la verità delle vittime. Il caso viene archiviato per insufficienza di prove e il padre, ormai lontano nella sua nuova vita con una nuova compagna, ha diritto di denunciare l’ex moglie per diffamazione, qualora volesse procedere oltre.

Roberta si rivolge al teatro dopo essersi confrontata con avvocati, magistrati, inquirenti, medici e psichiatri. Il teatro è l’ultima frontiera: quella in cui tutti i pezzi che compongono il puzzle della violenza possono essere continuamente ricomposti in un quadro conflittuale senza soluzione. Il teatro è il luogo dove il dramma è più importante della sua conclusione, dove il processo di elaborazione del dolore può prendersi tutto lo spazio.
Alla fine di un lungo viaggio, madre e figlia rimangono lì, ancora con i loro cocci tutti da ricomporre. Dice Roberta: “Almeno quando una casa brucia, è vero: ci sono i resti; ma ti rimangono i bei ricordi. Qui la casa è ancora in piedi, ma tutti i nostri ricordi non sono altro che bugie”.
Il meritato successo dello spettacolo, per me, risiede in due punti chiave, affrontati con capacità e onestà. Musso sa mettere in scena la galassia di soggetti che l’abuso chiama in causa come “rete” a sostegno delle vittime. Scuola, giustizia, medicina: ecco la triade che, in uno stato che esiste e funziona, dovrebbe intercettare con professionalità e procedure imparziali la violenza mentre ancora è possibile interromperla. Ma soprattutto, lo spettacolo non si scosta mai dal cuore del dramma: il danno irreparabile.

Il danno irreparabile è il cuore della violenza, che le vittime custodiscono e integrano come parte di sé. Per questo danno cerchiamo da tempo, insieme, le parole giuste. Perché se nessuno può capire, il danno diventa abbandono e solitudine.
Un’altra autrice di grande successo è passata dal teatro per trovare le parole per raccontare che “certe cose” succedono davvero, che sono reali. Quando Eve Ensler ha pubblicato nel 2019 The apology ho condiviso con moltǝ lettorǝ lo shock nello scoprire che l’autrice coraggiosa, ironica, intelligente, compassionevole dei Monologhi della vagina e fondatrice di “One billion rising” era stata una bambina abusata dal padre. In Italia il libro è pubblicato dal Saggiatore con il titolo Chiedimi scusa. In poco più di cento pagine, Ensler riporta in vita il padre abusante e scrive per lui un’articolata confessione in cui ripercorre le ragioni e, soprattutto, cerca le parole per descrivere il danno irreparabile.

Ho maledetto il tuo futuro d’amore. Ho contaminato la tua dolcezza. Ho strappato i protettivi cancelli dorati dal tuo giardino. Ho tradito la tua fiducia. Ho cambiato la tua chimica sessuale e le fondamenta del tuo desiderio. (…) Ti ho derubato della normalità. Ho distrutto il tuo concetto di famiglia. Ti ho costretta a tradire tua madre. Hai vissuto con un perenne senso di colpa e di odio per te stessa. (…) Ti ho derubato del possesso del tuo corpo. Non hai preso alcuna decisione. Non hai detto di sì. Avevi cinque anni. Io ne avevo cinquantadue. Non avevi sovranità. Ti ho sfruttata e abusata. Ho preso il tuo corpo. Non era più tuo.

Proprio il consenso è il punto in cui l’abuso contro la madre e l’abuso contro i figli si biforca. Alle origini della violenza intrafamiliare esiste, spesso, una sostituzione, un vero e proprio sacrificio, in cui i corpi dellǝ figliǝ sono immolatǝ per un bene superiore: l’unità e (fittizia) armonia famigliare. Questo significa che, prima dell’abuso, è creato un contesto e un linguaggio in cui la violenza acquista contorni sfumati, dove è possibile la negazione e il ribaltamento delle posizioni. Dove, di fatto, anche quando il minore prova a esprimersi, non è ascoltato e di certo non può essere salvato. Per avvicinarsi a questo tema, resta fondamentale il testo del 2003 di Paul-Claude Racamier Incesto e incestuale, pubblicato in Italia da Franco Angeli e ancora tra i volumi di riferimento per i professionisti dell’intervento in contesti familiari problematici.

Quello dell’abuso è un cerchio magico, dove amore e cura sono zone d’ombra cariche di pericolo per chi non può difendersi.
Non è un caso che nel successo editoriale di Vanessa Springora Le consentment (2020, edito in Italia da La Nave di Teseo) il racconto dell’abuso parafamiliare vada di pari passo con il resoconto di una società in cui un’intera generazione, quella uscita dagli anni ’60, confonde la liberazione dalla morale con la libertà di abusare. Springora lo racconta con grande lucidità:

Ho riflettuto a lungo su quella falla incomprensibile in uno spazio giuridico pur molto definito e non vedo che una sola spiegazione. Se le relazioni sessuali tra un adulto e un minore di quindici anni sono illegali, perché quella tolleranza quando riguardano un membro di un’élite (fotografo, scrittore, cineasta, pittore)? C’è da credere che l’artista appartenga a una casta a parte, che sia un essere dalle virtù superiori, al quale offriamo un mandato di onnipotenza senza chiedergli niente in cambio, salvo la produzione di un’opera originale e sovversiva, una sorta di aristocratico detentore di privilegi eccezionali davanti al quale il nostro giudizio, in uno stato di cieca ammirazione, deve essere sospeso.

Possiamo affermare che l’evoluzione del tema del consenso sia stata l’eredità culturale, mediatica e politica più travagliata del dopoguerra. Studiarne l’evoluzione ci permette di osservare i cortocircuiti che hanno caratterizzato il dibattito sulla libertà e, di conseguenza, quello sulla
censura.
La vita politica dell’Europa è stata segnata, dalla fine degli anni ’90, dalla nascita di veri e propri movimenti pro-pedoflia fino alla fondazione di pedo-party: partiti politici che, in nome di principi ambigui come libertà e amore, miravano ad abbassare l’età del consenso, aprendo di fatto a una completa depenalizzazione della pedofilia. Date non casuali: gli anni ’90 sono quelli che vedono anche nei paesi più conservatori, come l’Italia, la definitiva approvazione di norme che sanciscono i profili della violenza intrafamiliare ai danni delle donne e dei minori.

In Italia è il 1996 l’anno in cui entrano pienamente in vigore le norme contro la violenza sessuale, terminando un iter di oltre vent’anni. Con la legge n.66 del 15 febbraio 1996 , infatti, l’Italia abroga definitivamente quanto contenuto nel famigerato codice Rocco che considerava i reati di violenza sessuale fra i “delitti conto la moralità pubblica e il buon costume” e i reati di abuso intrafamiliare come “delitti contro la morale famigliare”. Ci vorranno ancora due anni per la prima legge quadro sulla pedofilia (legge 269/1998 ) che inserisce i reati contro i minori nella sezione “delitti contro la personalità individuale”. Una storia travagliata e complessa, quella della
normativa italiana, che si può ripercorrere nel saggio di Fiamma Lussana intitolato proprio Il movimento femminista in Italia,
edito da Carocci.

Non c’è da stupirsi che il dibattito italiano sia privo di parole per raccontare la violenza e affrontarla come un fenomeno strutturale: in Italia, Google è comparso molto prima dei reati su donne e minori!
La buona notizia è che, abbattuto l’ultimo baluardo normativo che non riconosceva donne e minori come persone bensì come manifestazioni di moralità, la legge ha corso veloce. Nel 1997 con la legge n.451 nasce l’Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza con il compito di relazionare almeno ogni due anni la situazione dei minori in Italia. Certo: la pubblicazione nel 2022 del rapporto sul biennio 2018-2019 fa intuire che non ci sia un interesse istituzionale a essere sul pezzo. Così, sul territorio nascono associazioni, osservatori, realtà in rete per diffondere una cultura dell’intervento immediato e competente, capace di rompere il cerchio protettivo in cui l’abuso si
compie e sostenere il minore nel modo più tutelativo per lui.

Sembra un’ovvietà, ma non lo è, tanto che si è reso necessario un intervento della Corte di Cassazione (pronuncia 9691/2022) per mettere fine alla delirante campagna politica in difesa dei diritti del genitore violento in nome di una sedicente “sindrome da alienazione parentale” di cui è stato ambasciatore l’ex senatore Pillon. La giornalista Jennifer Guerra ha ricostruito per FanPage le tappe fondamentali della vicenda che, con la sentenza della Cassazione, hanno posto fine (per il momento) allo strazio dei minori costretti a dover reiterare incontri con genitori abusanti. Dal 1° marzo 2023, sono in vigore tempi più stretti e maggiori tutele per effetto della cosiddetta Riforma Cartabia che aggiunge aspetti importanti a quelli già previsti nel Codice Rosso. L’intervento è ancora più tempestivo se la violenza o l’abuso emergono dove è in atto un procedimento di separazione, divorzio, affidamento del minore o cessazione della convivenza.

La riforma accompagna i nuovi nuclei famigliari, il matrimonio è un’eccezione, ma la violenza no. Per la prima volta, viene anche protetta la vittima durante il processo, con udienze che il giudice può richiedere da remoto al fine di evitare la cosiddetta “vittimizzazione secondaria”.
Raccontata in modo episodico, la violenza intrafamiliare e parafamiliare rischia di apparire come la somma di gesti individuali e non, com’è in effetti, un fenomeno culturale che origina da quello stesso presunto “diritto ad abusare” che è anche il pilastro della violenza contro le donne, compagne, mogli, madri, colleghe, dipendenti, figlie, sconosciute che siano. In rete le storie degli abusi sono sempre più raccontate, condivise, elaborate insieme. Il danno irreparabile non se ne può andare; ma la solitudine può essere attenuata e, in qualche caso, trasformarsi in forza. Le istituzioni che non attivano rilevazioni puntuali e aggiornate del fenomeno su scala nazionale non fanno altro che difendere l’ultimo baluardo di una cultura del potere che non ha più senso di esistere, capace di generare solo dolore e traumi.

La rete L’abuso ed Eca Global insieme hanno presentato esattamente un anno fa il Primo Report dei sopravvissuti agli abusi sessuali del clero italiano, in cui sono censiti casi di abuso parafamiliare riconducibili a poco meno di 500 sacerdoti. Il primato spetta alla Lombardia; ma i dati sono falsati dall’elevato numero di archiviazioni e dalla determinazione della singola vittima nel denunciare. Si fanno sempre più pressanti le richieste alla Chiesa e agli istituti ecclesiastici per l’avvio di un’inchiesta nazionale trasparente che metta
finalmente fine a un fenomeno sottaciuto. Papa Francesco appare sempre più determinato a sostenere anche in Italia un’indagine imparziale come già è successo in Germania, in Francia, in Spagna e in molti altri paesi.

In prima linea ci sono la scuola e la sanità territoriale, che potrebbe fare molto, moltissimo per intervenire tempestivamente. Bisogna al più presto colmare il gap formativo e culturale che ancora oggi, dal pediatra come in pronto soccorso, impedisce di riconoscere prontamente i segni dell’abuso nella metà dei casi, come denunciato al Congresso europeo di Medicina dell’Emergenza.

Nella mia biblioteca conservo religiosamente un volumetto dell’Associazione Artemisia curato da Roberta Luberti e Donata Bianchi datato 1997 che raccoglie gli atti di un convegno sul fenomeno, con preziosi consigli per educatori e medici, la cui attualità non smette di sconcertarmi. Si intitola …e poi disse che avevo sognato e dovete essere professionistǝ della caccia al libro per riuscire a trovarne una copia, ma ne vale la pena.

La rete del contrasto all’abuso intrafamiliare e parafamiliare si allarga, si amplia, si arricchisce di competenze. Al contrario, la risposta istituzionale è ancora frammentata, insufficiente, disomogenea, ambigua. Essere un minore abusato nel nord o nel sud del Paese fa la differenza tra uscirne oppure restare intrappolati. È del 2007 un piccolo caso editoriale, arrivato in sordina dalla Francia. Lo firmava una donna, Myriam Périne, senza alcuna velleità di autrice, ma determinata a condividere la sua storia come ultima tappa di un lungo e doloroso percorso di confronto con l’abuso intrafamiliare. Così inizia Chut: Dans les silences de l’inceste (edito in Italia da Armando editore con il titolo Taci! Nel silenzio dell’incesto):

Niente cancellerà mai gli anni di tortura mentale ma voglio che nessuno possa dire che non sapeva.
Questo libro è il compimento di cinque anni di terapia e di quindici anni di sofferenza. Spero che la mia esperienza permetterà ad altri di rompere il muro del silenzio e di poter finalmente parlare per liberarsi. Bisogna lottare perché tutto questo cambi e perché tutti sappiano.

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