Piera Carle aveva solo 25 anni quando venne brutalmente uccisa da sua madre, il 30 luglio del 1975 a Cuneo, in Piemonte. La donna, la 45enne Francesca Daziano, aveva scoperto che la figlia era rimasta incinta al di fuori del matrimonio (il padre del bambino era il suo fidanzato ‘storico’) e intendeva “darle una lezione”, come lei stessa affermò all’epoca.

Nella mattina del 31 luglio, Luigi Carle, 57enne, trovò la porta del bagno di casa sua bloccata. Quando riuscì ad aprirla, si trovò di fronte il cadavere di Piera, riverso su un fianco con macchie di sangue sul corpo e il volto rivolto al soffitto. Le pareti erano macchiate di sangue e sotto il corpo della ragazza venne scoperta una medaglietta d’argento.

Ciò che l’uomo fece subito dopo l’atroce scoperta meravigliò la stampa dell’epoca. Questo è ciò che scrisse La Stampa poco dopo il delitto:

“Forse l’uomo è rimasto choccato. Non è stato più in grado di comportarsi normalmente. Si sa che, nonostante l’atroce visione, è andato nell’alloggio del prefetto, dottor Luigi Spano, che è scapolo e quindi vive solo, gli ha portato i giornali e il caffè. Erano le 7,15. Il funzionario ha visto che Luigi Carle era pallido in volto, scosso e gli ha chiesto se si sentiva poco bene. La risposta dell’uomo è stata: «Ho trovato mia figlia morta nel bagno. C’era sangue dappertutto»”.

Da ciò che emerse durante l’ispezione del cadavere, Piera fu ripetutamente colpita alla testa con un oggetto contundente, forse un punteruolo. Presentava anche segni di strangolamento al collo. L’ipotesi dell’attacco improvviso di un maniaco venne subito scartata, data la presenza di una guardina presidiata da un poliziotto. Nessuno, inoltre, aveva sentito gridare la ragazza e il cane di famiglia non aveva abbaiato.

Fu la medaglietta trovata sulla scena del delitto, insieme all’anello di una catenina, a portare gli inquirenti a interrogare Francesca Daziano, che ammise di averla ricevuta dalla figlia. Dopo sette ore di interrogatorio, la sospettata crollò e confessò tutto.

“L’ho uccisa perché non voleva dirmi se era incinta“, dichiarò Daziano alla polizia. Durante un litigio violento in bagno, la donna aveva preso un martello e colpito Piera alla testa prima di strangolarla. La difesa fallì nel dimostrare l’infermità mentale dell’accusata durante il processo. Il procuratore capo Sebastiano Campisi chiese incredibilmente solo sei anni di condanna.

“Non mi sento di infierire su questa donna che ha ucciso per un senso dell’onore così radicato fra la gente di montagna” disse al tempo, “Daziano, donna non femminista ma legata a solidi valori morali e sociali, voleva che sua figlia giungesse illibata al matrimonio e con tanti fiori e un velo bianco”.

Per quanto assurdo, la Procura riconobbe anche un’attenuante, dal momento che Piera avrebbe risposto “Fatti gli affari tuoi” alla madre che le chiedeva chiarimenti riguardo al suo ritardo mestruale. Daziano venne condannata a tredici anni e otto mesi per omicidio volontario, con il riconoscimento delle attenuanti generiche.

“Il diritto non può premiare atteggiamenti intessuti di pregiudizio e di egoistico rancore in un’epoca che, anche attraverso l’uso di capillari strumenti di informazione, ha dissacrato molti dei più vieti tabù” dichiarò il giurista Giovanni Conso, futuro presidente della Corte costituzionale e ministro della giustizia.

Secondo Conso, il “diffuso atteggiamento anti-divorzista ed anti-abortista riscontrabile in quelle valli” avrebbe in realtà dovuto rendere ancor più severa la condanna contro Daziano. “In tale caso, per un anti-abortista, le vite eliminate sono due. Con forza ancora maggiore, il diritto alla vita chiede di essere proclamato, tutelato e difeso di fronte ad altri valori, ivi compreso quello dell’onore familiare”.

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