Perché le parole di Enrico Varriale e del molestatore di Beccaglia si somigliano

A processo per lesioni e stalking a seguito della doppia denuncia dell'ex compagna, Enrico Varriale affida a Mensurati parole e concetti che, nelle intenzioni, dovrebbero fornire le attenuanti della violenza agita, ma che sono esemplificativi di un tema caldo e quanto mai attuale: l'incapacità o la non volontà (o entrambe le cose) degli uomini di identificare, comprendere e quindi scardinare le dinamiche della violenza di genere di cui essi stessi sono quotidianamente protagonisti e, soprattutto, di assumersene colpa e responsabilità.

Su Repubblica di oggi c’è un’intervista di Marco Mensurati al noto giornalista sportivo ed ex vicedirettore di RaiSport, Enrico Varriale, cui mi pare non si stia dando la giusta importanza.
A processo per lesioni e stalking a seguito della doppia denuncia dell’ex compagna, Varriale affida a Mensurati parole e concetti che, nelle intenzioni, dovrebbero fornire le attenuanti della violenza agita, ma che sono esemplificativi di un tema caldo e quanto mai attuale: l’incapacità o la non volontà (o entrambe le cose) degli uomini di identificare, comprendere e quindi scardinare le dinamiche della violenza di genere di cui essi stessi sono quotidianamente protagonisti e, soprattutto, di assumersene colpa e responsabilità.

Non è un caso che le parole di Varriale abbiano precise similitudini con quelle di Andrea Serrani, il molestatore in diretta tv della giornalista Greta Beccaglia, di cui si discute parecchio (e giustamente!) in questi giorni.
Ma prima, per chi non fosse aggiornato, la sintesi dei fatti.

Il caso Varriale, in breve

L’ex compagna denuncia Enrico Varriale due volte: il 9 agosto per lesioni e maltrattamenti, il 14 settembre per stalking.
La Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Roma, Monica Ciancio, parla di “prove schiaccianti” contro Varriale che, secondo quanto scrive, “ha molestato, minacciato e picchiato la sua compagna”; quindi: a) dispone a carico di Varriale la misura cautelare del “divieto di avvicinamento” alla donna; b) decide per il processo immediato, che si terrà a gennaio.
Agli atti c’è anche un’offerta di 15 mila euro offerti alla donna per ritirare la querela.

Le criticità della versione di Varriale

I processi si fanno in aula e quello a Varriale sarà un processo ordinario perché, stando alle parole del giornalista sportivo a Mensurati su La Repubblica, i fatti non sarebbero andati esattamente come ricostruito dalla giudice che avrebbe accolto solo “la tesi della Signora”, come la definisce nel corso di tutta l’intervista. La decisione per il rito ordinario, quindi, dipende dalla volontà di Varriale e avvocati di

raccontare l’intera storia in un dibattimento. Non per attenuare le mie responsabilità, ma per affermare un concetto semplice: ho sbagliato ma non sono un mostro.

Il concetto è tutt’altro che semplice, in realtà. Nel corso dell’intervista Varriale sfodera il campionario più o meno completo delle problematiche sessiste nella percezione e, quindi, nella narrazione della violenza di genere. Tentare di fermare alcuni concetti si spera possa essere utile a scardinare alcuni meccanismi auto assolutori individuali e collettivi che si presentano, ricorsivi, ogni volta che si parla di violenza di genere a vari livelli.

Il caso della giornalista Greta Beccaglia di questi giorni docet e, non a caso, le giustificazioni avanzate dal molestatore della giornalista presentano varie similitudini con quelle di Varriale, che pure tenta la contrapposizione (“mi consenta a riguardo di esprimere la mia massima solidarietà a Greta Beccaglia”).

L’attenuante dell’incensurato

“Ho sbagliato ma non sono un mostro” potremmo definirla l’attenuante dell’incensurato.
Il fatto che sia stata usata anche dall’uomo che ha molestato in diretta tv la giornalista – nella variante brava persona, grande lavoratore, onesto lavoratore distrutto per l’errore di una volta – non è un caso.
I due fatti sono diversi tra loro e come tali andranno giudicati da chi di dovere, ma sono figli della stessa cultura. Per questo l’attenuante dell’incensurato torna in ogni caso di violenza di genere, come se aver commesso un reato una volta sola valesse il bonus e non essere una persona violenta in modo ricorsivo fosse un merito e non il minimo sindacale.

La prova degli affetti

L’attenuante dell’incensurato chiama sempre in causa la prova degli affetti. Nel caso di Varriale, dall’ex moglie “fantastica” che “sa che non sono uno che mena le donne”, al “chi mi conosce sa che non sono così”.
L’abbiamo visto in vari casi: è la logica del gigante buono, di quello conosciuto da tutti come una brava persona o, per tornare al caso Beccaglia, “ho anche una figlia”.

Citazione particolarmente significativa di Enrico Varriale da La Repubblica:

Io non ho mai picchiato una donna. Sono della scuola che nemmeno con un fiore. Mia moglie, le mie figlie, le mie colleghe, le collaboratrici, lo sanno bene

L’impegno del 25 Novembre

Varriale cita i servizi diretti negli scorsi anni in occasione del 25 Novembre, invia solidarietà a Beccaglia, chiama a testimoni colleghe, figlie, moglie, etc…
L’incapacità di identificare e riconoscere la violenza di genere fuori dalla sua manifestazione più violenta – il femminicidio – è una costante.

La colpa della donna
In molti, sui social, hanno attribuito a Greta Beccaglia la colpa di “marciarci su” o sfruttare la cosa per diventare “famosa e fare carriera”. Per la serie: dovresti pure ringraziarlo!
Varriale dice sì di aver fatto qualcosa che non va mai fatto, ma poi diluisce le colpa nella colpa condivisa (anche lei lo ha picchiato, solo che lui non si è fatto refertare in un ospedale, lei sì). Soprattutto suggerisce più o meno consapevolmente un giudizio negativo sulla donna, rea di non aver saputo scegliere tra la relazione extraconiugale con lui e il marito che stava tradendo a sua insaputa. Il che mette l’uomo nella condizione di vittima esasperata da una donna manipolatrice.

Nulla di nuovo sotto il sole: la donna che tradisce, lascia, abbandona; non è al fianco (o un passo dietro, meglio) al proprio uomo è un classico nelle storie di violenza di genere. Del resto la convinzione, diffusa tra gli uomini ma anche tra le donne, è che ‘so ragazzi! (anche quando sono uomini). Si sa che sono impulsivi, territoriali, orgogliosi: in una parola, maschi. Sin da quando sono piccoli si perdona loro ogni manifestazione violenta, che viene spesso anzi romanticizzata (si arrabbia perché ci tiene!).
Se poi è la donna che provoca – altro sotto pensiero radicatissimo – è impossibile che il maschio-animale non risponda.

L’auto vittimizzazione
Rispetto alle accuse della donna, Varriale ci tiene a precisare “non le ho mai messo le mani al collo” e, stando all’intervista in questione, minimizza dando lettura della prognosi data alla donna in ospedale, di 5 giorni e in cui si parla di ecchimosi agli arti superiori, una contusione al gomito e solo un’abrasione alla base del collo. La lettura, insomma, sembra suggerire la versione del qualche bottarella, nulla di drammatico.
Più avanti aggiunge, non senza contraddizioni:

Ci siamo colpiti tutti e due. Non l’ho picchiata. È stato un litigio. Alla fine avevo l’occhio pesto, quello messo peggio ero io”.

E ancora:

Lei mi è saltata addosso. Mi sono difeso. Ma non le ho mai messo le mani alla gola. Posso averla allontanata, al massimo

Non deve capitare. Ammetto che è capitato. Non mi sono controllato. Ci siamo colpiti. Ma quello che è capitato, di cui mi vergogno, va inserito nel giusto contesto. Non sono un violento, non sono uno stalker, non ho provato a strangolarla.

Rispetto a quest’ultima riflessione, mi sembra utile e doveroso rimandare all’approfondimento che La Repubblica ha affidato a Elena Stancanelli, che firma questo articolo che vale la pena di leggere per intero e di cui riporto qui la seguente citazione:

Occhi neri, graffi, escoriazioni possono essere distribuiti equamente, nello scontro. Ma quando questo accade, quando si perde la testa e ci si trova uno con le mani addosso all’altra, solo la donna pensa “potrebbe uccidermi”.
Se questa cosa va avanti, se non si ferma potrebbe uccidermi. Questa differenza è il punto. Nella testa di un uomo nelle stesse circostanze la paura, se c’è, non prende mai quel vicolo cieco del terrore, sepolto, atavico, ma sempre lì in agguato.
[…] Le donne sanno, e non perché la loro immaginazione galoppa ma al contrario perché sono coscienti della realtà, che quando un uomo alza le mani su di loro può capitare che le uccida.

Ci sono vari elementi che accomunano quelli citati e tanti altri casi di violenza di genere.
Mi soffermo qui su uno: è vero, gli uomini sono spaesati.
Hanno sempre dato pacche sul sedere, apostrofato donne a loro piacimento, persino i proverbi hanno chiarito loro che dare due schiaffi alla compagna di tanto in tanto è auspicabile e propedeutico a tenerla in riga (figuriamoci quando non sta al suo posto!).
E ora che tutto sta saltando, ora che le donne attorno a loro “esagerano” e “fanno tragedie” pure per una pacca sul culo che oh, dicono alcuni e persino alcune, dovrebbe pure far loro piacere… gli uomini sono spaesati!
Finalmente, sono spaesati! E arrabbiati, impauriti, costretti a mettersi in discussione, travolti da un peso che non sono abituati a portare: quello della responsabilità delle loro azioni nei confronti delle donne.
Avanti così!

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