I latini dicevano “mater semper certa est”, la madre è sempre certa. Quel “sempre” però, esclude la realtà di molte persone. Almeno 400.000 secondo un’inchiesta di Repubblica di qualche anno fa, ma il numero potrebbe essere più alto, perché parliamo di una popolazione in forte crescita. Sono i figli e le figlie delle “madri segrete”, partoriti da donne a cui la legge garantisce il diritto di restare anonime. A loro si aggiungono i bambini e le bambine affidati alle “culle per la vita” o lasciati in luoghi sicuri perché qualcuno possa prendersi cura di loro.

La legge, ricorda il Ministero della salute, garantisce il parto in anonimato e consente alla madre di non riconoscere il bambino e di lasciarlo nell’ospedale in cui è nato (DPR 396/2000, art. 30, comma 2) affinché sia assicurata l’assistenza e la sua tutela giuridica. Il nome della madre rimane per sempre segreto e nell’atto di nascita del bambino viene scritto “nato da donna che non consente di essere nominata”.

Per tutte queste persone la madre – quella biologica, perché non dobbiamo dimenticare che è di questo che parliamo – non è certa. Per alcune di loro, però, la ricerca delle proprie origini diventa un elemento centrale della propria esistenza e di costruzione della propria identità.

Secondo l’articolo 28 della Legge 2001 n. 149 le persone adottate hanno diritto di accedere, a certe condizioni e con procedure stabilite, alle informazioni concernenti l’identità dei genitori biologici. Questo accesso non è però consentito se la madre naturale non ha riconosciuto il figlio o la figlia poi dato/a in adozione “e qualora anche uno solo dei genitori biologici abbia dichiarato di non voler essere nominato, o abbia manifestato il consenso all’adozione a condizione di rimanere anonimo”.

Il diritto a rimanere una mamma segreta prevale su ogni altra considerazione o richiesta e “ciò deve costituire un ulteriore elemento di sicurezza per quante dovessero decidere, aiutate da un servizio competente ed attento, a partorire nell’anonimato”, conclude il Ministero.

Fino alla sentenza della Corte Costituzionale del 2013 il diritto alla riservatezza della madre era assoluto e non modificabile. Dopo la sentenza 278/2013, invece, questa scelta è diventate reversibile e su richiesta del figlio o della figlia la genitrice può revocare la dichiarazione di anonimato fatta a suo tempo  purché questo avvenga “attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza”.

Secondo il Codice della Privacy, che dedica un articolo al “certificato di assistenza al parto” (art. 93 c. 2 d. lgs. 196/2003) questo documento e la cartella clinica, se presentano dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, “possono essere rilasciati in copia integrale a chi vi abbia interesse, in conformità alla legge, decorsi cento anni dalla formazione del documento”. Prima di questo periodo, può essere garantita la possibilità di accedere solo in casi specifici e osservando opportune cautele per evitare che la madre possa essere identificata.

È importante non confondere il diritto di accesso alle origini con la richiesta di accesso alle informazioni sanitarie, che può essere una necessità soprattutto se parliamo dell’eventuale presenza di malattie ereditarie trasmissibili. Si tratta di una richiesta che la Corte di Cassazione ha definito nel 2021

ulteriore e distinta rispetto a quella di puro accesso alle origini, avendo come finalità la tutela della vita o della salute del figlio adottato o di un suo discendente”.

Non solo: non è garantito un accesso integrale ai dati medici che possono essere ricavati dalle cartelle relative all’assistenza al parto, ma solo il diritto di accedere a informazioni sulla base di quesiti specifici, continuando a tutelare la riservatezza e la non identificabilità della madre biologica.

Sono passati 10 anni dalla sentenza della Consulta è diverse proposte di legge hanno provato a cambiare la situazione, bilanciando il diritto dei figli a conoscere le proprie origini con quello delle donne che li hanno partoriti a non voler essere rintracciate, se non lo desiderano. Per ora, tutte si sono concluse con un nulla di fatto

Ad alimentare questa spinta a legiferare è anche una narrazione che riduce le scelte di queste donne quasi esclusivamente all’ignoranza, all’indigenza, allo sfruttamento (che sono certamente alla causa di moltissimi parti in anonimato) – e, quindi, alla necessità più che alla volontà – cancellando l’esperienza di chi decide di non essere madre per motivi che non dovrebbero interessarci e che a cui non dovremmo guardare con lo sguardo morboso di chi guarda solo alle esperienze traumatiche per non ammettere quello che è ancora indicibile. Che le donne hanno diritto di non diventare madri senza per questo dover giustificare questa scelta con un dolore inevitabile. Che possono decidere, semplicemente, di non voler crescere quei figli senza che questo faccia di loro dei mostri.

Che non tutte possono o vogliono scegliere di abortire – in un Paese in cui, ricordiamolo, l’interruzione volontaria di gravidanza è una corsa a ostacoli – ma non per questo può essere leso il loro diritto a rimanere nell’anonimato, se lo desiderano. Eppure, lo mostrano i recenti casi di cronaca, questa rimane un’utopia.

Laddove è possibile – è il caso solo dei parti che avvengono in ospedale, ma non delle culle della vita, ad esempio – è giusto garantire ai figli e alle figlie di una “madre segreta” il diritto di provare a conoscere le proprie origini. Questo diritto, però, non deve ledere quello delle donne che scelgono il parto in anonimato, a cui deve essere garantita la possibilità di decidere di non essere rintracciabili se non lo desiderano.

Molte delle donne raggiunte dal cosiddetto “interpello” dei Tribunali, che dopo la decisione della Consulta hanno accolto le richieste dei figli di accedere alle informazioni sulle loro madri biologiche, hanno accettato. Ma questa non è che una parte delle esperienze delle donne: non tutte hanno il desiderio di ricongiungersi ai loro “bambini perduti” ed è compito della legge riconoscere questa volontà, per quanto possa non piacere o apparire ingiusta di fronte al desiderio di chi è stato adottato o partorito in anonimato di conoscere la propria storia.

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